Ambientato nella Cina moderna con personaggi cinesi, in realtà propone una storia e dinamiche universali che potrebbero appartenere a qualsiasi luogo del mondo. Difficile immaginare che un film così “nella norma” possa dar vita a un franchise di successo come Kung Fu Panda. Dal 3 ottobre in sala
La Dreamworks non è il primo studio d’animazione a realizzare un cartone animato ambientato in Cina con personaggi cinesi, già lo aveva fatto la Disney con Mulan. Il mondo però è cambiato nel frattempo e se Mulan era qualcosa di esotico, un cartone in tutto e per tutto americano nei temi che usava l’antica Cina come ambientazione, Il piccolo yeti è invece un film che non ha nessuna ragione per essere ambientato in Cina se non quella di voler realizzare la prima storia animata americana pensata per sembrare cinese. Non è esotico né racconta una storia prettamente cinese, non ha bisogno di un setting asiatico ma anzi usa quel paese in modi non diversi da quelli nei quali può essere usato qualsiasi altro paese.
Al centro di tutto c’è infatti l’eterna trama di una creatura che tutti ritengono pericoloso tranne i ragazzi che l’hanno trovato. È un cucciolo di yeti (comunque molto grosso) che era stato imprigionato da una società malvagia e ora è scappato. Quella compagnia lo sta cercando mentre lui vorrebbe tornare sull’Himalaya, lo aiuteranno i tre ragazzi in cui si è casualmente imbattuto fuggendo e che iniziano un viaggio con lui. Nonostante quel che possa sembrare nel film non c’è nessuna enfasi sul fatto di trovarci in Cina, non è una scelta inusuale che porta ad un’estetica particolare, è dato per scontato come se fosse la cosa più normale, come se fosse New York. E i protagonisti Yi, Peng e Jin non sono caratterizzati come cinesi, ne hanno i lineamenti ma per il resto potrebbero abitare ovunque. Insomma la Cina qui non è una scelta necessaria alla storia, ma una utile a posizionare il film.
Così dopo Kung Fu Panda la Dreamworks continua ad insistere su quell’ambientazione, soltanto spostandosi nella modernità, in una metropoli nella quale scappa il piccolo yeti, nascosto tra i tetti del palazzo di una ragazza la quale è in costante ricerca di un domani migliore (e un viaggio sentimentale) tramite piccoli lavori. Lì vive però anche un ragazzo, bello e vanesio, che a lavorare non ci pensa e preferisce spendere denaro e farsi selfie, appresso a lui impazziscono le altre ragazzine in scooter e casco con orecchie pelose, ma non lei, che è seria e giudiziosa. Uno dei più grandi temi del cinema cinese mainstream: il futuro dei ragazzi, il duro lavoro da caricarsi sulle spalle contrapposto alla vita molle.
Certo siamo lontanissimi dall’equilibrio di Kung Fu Panda (che pure aveva a che vedere con vita agiata e duro lavoro), c’è un netto passo indietro quanto a complessità della narrazione e stratificazione della scrittura. Il piccolo yeti è professionale nella realizzazione e nella tecnica ma molto dozzinale nella trama e nei personaggi. Anche le obbligatorie strizzate d’occhio ad un pubblico adulto sono davvero minuscole e limitate. Ad esempio tutte le soluzioni tramite le quali i personaggi escono dai problemi, risolvono i guai o avanzano nella trama sono dei deus ex machina, dei prodigi che giungono inaspettati a risolvere tutto, calati dall’alto. Non c’è nulla che emerga dal racconto o venga maturato, magari prima seminato in una scena iniziale e poi raccolto in una successiva. Addirittura i momenti più drammatici saranno risolti tramite l’innata magia del piccolo Yeti.